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Silent Hills

La paura nel videogioco e nel cinema ai tempi di P.T.

L'arrivo a sorpresa di P.T. sul palco della Gamescom ci ha fatto nuovamente riflettere sul dibattuto rapporto tra cinema e videogioco, alla luce di un sentimento che forse, più di tutti, accomuna queste due forme d'arte: la paura.

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In un'epoca in cui il rapporto tra cinema e videogioco si fa sempre più complesso, due grandi autori decidono di contribuire a questo intenso dibattito con un progetto che, almeno in apparenza, si prepara a mettere nuovamente in discussione uno dei temi più controversi degli ultimi dieci anni, attraverso l'analisi di una delle emozioni più intense che caratterizza ciascun essere vivente, dagli uomini agli animali: la paura.

Ed è interessante che questo nuovo prodotto, P.T. (acronimo di Playable Teaser) o Silent Hills (per chiamarlo con il suo vero nome), prenda forma grazie ad un sodalizio artistico di due registi - Hideo Kojima e Guillermo del Toro - che, seppur occupandosi rispettivamente di videogioco e cinema, hanno spesso cercato di far confluire (chi più chi meno) questi due universi, spinti dalle rispettive passioni per queste diverse forme artistiche. Quante volte, giocando ad un capitolo di Metal Gear Solid, abbiamo colto rimandi al cinema anti-narrativo (per anti-narrazione, intendiamo quel tipo di racconto in cui ogni azione dei personaggi perde significato e la situazione narrata risulta frammentaria e dispersiva. Pensate a Pulp Fiction di Quentin Tarantino, ad esempio) o, più semplicemente, alle basilari tecniche di ripresa che hanno costruito il linguaggio cinematografico dai suoi esordi.

Stesso dicasi, seppur in forma decisamente meno elaborata, anche per Guillermo del Toro che, soprattutto nelle ultime fasi del suo cinema (pensiamo a Pacific Rim), non ha mancato di rendere omaggio alla sua infanzia, trascorsa a divorare anime giapponesi, e con protagonisti quei mecha che hanno caratterizzato tanta animazione seriale e tanti prodotti videoludici già a partire da quegli anni (in merito al rapporto fantascienza/cinema/videogioco, vi segnaliamo anche un interessante articolo del nostro collega Gillen McAllister).

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Ma ciò che maggiormente ci affascina di questo interessante esperimento è la scelta del genere, l'horror, probabilmente l'unico capace di tenere insieme le fila di due media che, seppur condividano molti punti di contatto, continuano ad essere molto diversi tra loro. E la risposta a questa distanza incolmabile, lo sappiamo, è una e sola: l'interazione. Ciò che non permetterà mai al cinema e al videogioco di trovare un minimo comun denominatore sta proprio in questo aspetto semplice, ma al tempo stesso fondamentale: nel videogioco posso intervenire e contribuire all'azione sullo schermo, nel cinema no. Chiaro, palese, evidente. Eppure.

Eppure, più di qualsiasi altro, l'horror - grazie ad un sentimento totalizzante come la paura - è l'unico genere che potrebbe, in qualche modo, mettere in discussione l'effettiva lontananza tra queste due forme d'arte, in quanto le sensazioni provate, quel senso di immersività dettate da tale emozione, sono praticamente identici, che si abbia o meno un controllo diretto sull'azione di fronte a noi. E tale riflessione scaturisce proprio quando, entrando in un loop labirintico che sembra non finire mai, mettiamo alla prova il nostro coraggio in questa strana demo chiamata P.T.

Ci addentriamo, non senza un po' di timore, nell'esplorazione di questo corridoio a "L", in cui, dando un'occhiata alle pareti e alla mobilia circostante, proviamo a farci un'idea di quello che ci attende. Niente, nessun indizio. In sottofondo, quella che sembra la voce di un commentatore radiofonico. Una radiosveglia, che segna le 23:59, tanta confusione, adocchiamo la foto di una coppia felicemente sposata, una porta chiusa. Andiamo avanti verso la porta dello scantinato, scendiamo le scale, apriamo la porta. Ci ritroviamo nel corridoio precedente, ed è così per le successive due/tre volte, con la radiosveglia che segna le 23:59, gli stessi oggetti sparsi per il pavimento, fino a quando non troviamo chiusa la porta dello scantinato. Che fare?

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Proviamo a guardarci in giro, l'adrenalina sale e ci pervade un senso di claustrofobia. Nessuna via d'uscita. Eppure, proprio come quando si guarda un horror, continuiamo a ripeterci "Ok, prima o poi accade qualcosa", "Ok, prima o poi spunterà qualcosa che mi farà crepare dalla paura!". E infatti si socchiude una porta (precedentemente presa a pugni da "qualcosa" che si dimenava al suo interno). Con le mani fredde e sudate, ci avviciniamo alla porta e sentiamo un bambino piangere. Dallo spiraglio della porta intravediamo solo oscurità fino a quando, avvicinandoci di più, non veniamo sorpresi da qualcosa (nel frattempo, abbiamo perso 10 anni di vita) che, senza vergogna, ci fa lanciare via il controller e ci fa gridare dal terrore.

Eccola, è venuta fuori. La paura. Sorridiamo, ci diamo degli imbecilli, e proseguiamo in un ennesimo loop, alla scoperta, porta dopo porta, corridoio dopo corridoio, mutazione dopo mutazione (no, non vi diremo altro, vi invitiamo a scaricare la demo!), di pochi indizi inquietanti, che dopo questa esperienza al limite dell'infarto, ci hanno lasciato solo due cose: una tachicardia per le successive due ore, e una curiosità immensa. Una curiosità mutuata anche da una riflessione successiva alla nostra esperienza con questo teaser trailer che, a detta degli stessi autori, vuole essere più una demo incentrata sul sentimento della paura che respireremo nel gioco, sulle sue atmosfere, piuttosto che sulla storia in sè e per sè.

Ciò che ci ha colpito di P.T. è che, proprio come al cinema, anche in questo prodotto videoludico - ci permettiamo di chiamarlo così, anche se nel caso di questa demo il nostro rapporto di interazione è davvero molto limitato - la paura ci immobilizza, ci rende inermi. Prima che "attori", anche in un videogioco horror ci troviamo ad essere spettatori dell'orrore, spesso ci troviamo ad assistere ad una sequenza al cardiopalma prima di avere il tempo di reagire, magari scappare o imbracciare un'arma e annientare la nostra minaccia. Proprio come al cinema, quando ci copriamo gli occhi e cerchiamo di tenere lontano quell'immagine che ci ha spaventato. Per poi tornare alla lucidità e proseguire nella nostra visione.

Non sappiamo se questa possa essere una delle tante risposte ad un dubbio quasi amletico che va avanti da anni: molti potrebbero mettere in discussione il concetto stesso di immersività (diverso nei due media, proprio per l'elemento dell'interazione di cui sopra), altri supportarlo come elemento di contatto tra questi due media. Forse neanche questa volta riusciremo a dare una risposta, ma forse non vogliamo trovarla. Tuttavia, l'idea sottesa a P.T. - o più correttamente, a Silent Hills - ci stuzzica parecchio e se lo scopo di Kojima è "farci cag*re addosso", rimarcando tuttavia su cliché tipici della sua controparte cinematografica, saremo ben lieti di farci spaventare. Forse perché è una delle poche emozioni ancora capace a farci sentire vivi.

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