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È morto Sandro Benedettini

Ho appreso solo oggi di un grave lutto nel mondo dei videogiochi in Italia. La scorsa settimana è improvvisamente scomparso Sandro Benedettini, marketing manager di Nintendo Italia.

Benché il nostro lavoro di giornalisti ci porti ad avere contatti, talvolta amicizie, principalmente con i PR delle varie case di produzione, ho avuto modo di conoscere Sandro Benedettini nel corso di svariati eventi organizzati da Nintendo, in particolare quando mi trovavo nel team di Wiitalia.

Volevo cogliere l'occasione per ricordare Sandro e mandare un abbraccio a tutti i ragazzi di Nintendo Italia. E, ovviamente, alla moglie e ai suoi tre figli.

Assocerò sempre Sandro a un particolare evento, in cui sfidò il campione italiano di pugilato Giacobbe Fragomeni a Punch Out! per Nintendo Wii. Fu una bellissima giornata, con tante risate e spensieratezza.

Ciao Sandro.

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Accentate sbagliate in Google Chrome

Google Chrome è impazzito. Qualche tempo fa, mentre lavoravo al nuovo layout grafico di Gamereactor, notai una cosa poco rassicurante. La parola "Español" presentava uno strano geroglifico al posto della lettera ñ. Non me ne curai più di tanto, poiché l'incidenza della lettera ñ nella lingua italiana è pari a zero.

Ma, poco dopo, mi accorsi di qualcosa di infinitamente più grave: anche tutte le nostre accentate (àèéìòù) erano state sostituite da strani simboli.

Non vi farò perdere tempo nel raccontarvi tutto il percorso che mi ha portato a trovare una soluzione, che ha incluso un inutile formattone del PC e la partecipazione a gruppi di discussione.

In ogni caso, vi spiegherò qual è l'origine del problema. Benché sia elogiato come il browser migliore del mondo, il problema è da imputare proprio a Chrome, che non è in grado di processare correttamente i caratteri della famiglia Helvetica.

Se qualche web designer sceglie di utilizzare l'Helvetica (o Helvetica Neue) come font del proprio sito web (e, credetemi, ce ne sono tanti), il browser impazzisce e processa i caratteri speciali in maniera errata.

È inutile cambiare la codifica, aprire la pagina "roba da smanettoni" del browser, disinstallare/reinstallare i caratteri o cancellare la cache dei font di Windows: non cambia nulla. Il problema è di Chrome, e mi meraviglio che non sia ancora stata trovata una soluzione.

Nell'attesa che ci mettano una pezza, esiste un sistema poco elegante ma efficace per risolvere il problema. In poche parole, si tratta di ordinare al browser di NON processare il carattere Helvetica e di sostituirlo con un innocuo Arial.

Per farlo, è sufficiente aprire il file "Custom" contenuto nella cartella

C:\Users\NOMEUTENTE\AppData\Local\Google\Chrome\User Data\Default\User StyleSheets

(al posto di NOMEUTENTE dovreste trovare la cartella del vostro profilo, nel mio caso si chiama Lorenzo. Se non trovate la cartella AppData dovete abilitare la visione di file e cartelle nascoste, la procedura la trovate qui.)

Una volta aperto il file Custom con un editor di testo, copiate e incollateci dentro il seguente codice:

@font-face { font-family: 'helvetica'; src: local('Arial'); }
@font-face { font-family: 'helvetica neue'; src: local('Arial'); }

UPDATE 22 febbraio:
Per un risultato migliore usate il seguente codice al posto del precedente:

@font-face { font-family: 'helvetica'; src: local('Arial'); }
@font-face { font-family: 'Helvetica Neue'; src: local('Arial'); }
@font-face { font-family: 'helvetica neue'; font-weight:bold; src: local('Arial'); }

Salvate e chiudete. Il problema dovrebbe risolversi immediatamente, non è necessario riavviare il sistema.

Per ripristinare il carattere Helvetica, qualora Chrome sistemasse il problema in una nuova versione del browser, è sufficiente rimuovere il codice dal file Custom e salvare.

Se usate Mac, il file Custom si trova nella cartella:

USERPROFILE\AppData\Local\Google\Chrome\User Data\Default\User StyleSheets

La procedura è la stessa.
Spero che vi sia utile. Nel mio caso ha ridotto le mie bestemmie in maniera così incisiva che la prossima volta che mi andrò a confessare impiegherò cinque minuti.

Accentate sbagliate in Google Chrome

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La canzone mononota e il postmodernismo

L'esibizione di ieri sera a Sanremo degli Elio e le Storie Tese ha lasciato il segno. Sapevamo che sarebbe successo qualcosa di imperdibile, d'altro canto ogni volta che Elio calca il palco dell'Ariston si scrive la storia della musica italiana. Nel bene e nel male.

Il primo Sanremo a cui gli Elii parteciparono risale al 1996. La canzone "La terra dei cachi" la conoscono tutti. Venne scritto un arrangiamento che faceva uso di tutti gli strumenti dell'orchestra, incluso il gong del percussionista che - a suo dire - fu usato solo in quell'occasione, con suo sommo piacere. Ma al di là della funambolesca esecuzione per la quale si complimentò l'orchestra, le esibizioni vennero ricordate perché il complessino milanese si presentò vestito da Rockets prima, con un braccio finto poi. Nell'ultima sera, in cui i cantanti in gara dovevano eseguire un estratto della propria canzone della durata di un minuto, Elio e le storie tese suonarono l'intero brano condensato in cinquantacinque secondi, ribattezzando il titolo in "Neanche un minuto di non caco".

Elio arrivò secondo. Qualche settimana dopo Sanremo venne chiamato di fronte a un giudice, perché un'indagine rivelò che il risultato venne falsato e la vittoria fu consegnata a Ron. Ma la vicenda legale si concluse in maniera opaca.

Nel 2008 Elio condusse il miglior Dopofestival di cui io abbia memoria, e si presentò sul palco dell'Ariston per cantare la cavatina di Figaro tratta dal Gugliemo Tell di Rossini. Naturalmente, si prese una lunga pausa all'interno della parola "Figaro", pronunciando per la prima volta a Sanremo il vezzeggiativo dato all'organo genitale femminile, il tutto con una gigantografia di Mangoni proiettata sul ledwall alle sue spalle.

Insomma, il matrimonio tra Sanremo e gli Elio e le Storie Tese è una storia particolare, di quelle che lasciano il segno.

Pertanto, non c'è da stupirsi che anche quest'anno la partecipazione degli Elii sia destinata a fare discutere. Il primo brano con cui si sono presentati - Dannati Forever - è un brano di costruzione abbastanza semplice: quattro quarti, struttura a strofa e ritornello. Insomma, una delle rare canzoni semplici presentate da questa eclettica band. Devo dire di essere rimasto sorpreso da questa prima canzone: mi aspettavo qualcosa di assurdo ma, al di là della mise da chierichetti, la canzone era lineare.

Il delirio, quello di cui tutti stanno ancora parlando sui social network, è giunto con il secondo brano in gara, qualificatosi per la finale con oltre l'80 percento delle preferenze, dal titolo "La canzone mononota".

Come suggerisce il titolo, si tratta di un brano costituito da una sola nota (un Do), fatta eccezione per l'intro e per una variazione posta circa a metà del brano. Ma quello che più conta è che si tratta di una metacanzone. Esistono altri esempi di metacanzone: mi viene in mente, ad esempio, il brano "Do-Re-Mi" del musical "Tutti insieme appassionatamente". Max Gazzé, ad esempio, dichiarò il passaggio da un accordo di La minore al La maggiore nel suo brano sanremese "Una musica può fare". Inoltre, esistono centinaia di canzoni che, nel testo, mettono in atto quella che Gérard Genette chiamerebbe enunciazione enunciata, ovverosia canzoni che parlano della scrittura della canzone stessa, o dell'atto di cantarla (si pensi a "Serenata di strada" dei Modena City Ramblers).

In ogni caso, una struttura così complessa, così metareferenziale come quella della "Canzone mononota" non l'avevo mai sentita. Come detto, dopo l'introduzione iniziale la canzone si presenta come una serie di strofe le cui parole sono cantate su di un Do. L'accompagnamento, tuttavia, non è costruito sul solo accordo di Do maggiore in quanto, ad esempio, chiude le strofe con Do-Do-Fa-Fa-Do. Nel testo, però, si spiega la possibilità di non rendere monotona la canzone mononota variando tutti gli elementi al di fuori della melodia, tra cui il tempo, il ritmo, l'altezza e, ovviamente, gli accordi. Nello specifico, viene descritta nel testo una progressione di accordi che ha dell'incredibile: Do, Dom, Do aum, Do dim. Chiunque sappia strimpellare la chitarra si renderà subito conto dell'unicità di questo giro di accordi nella musica leggera. Ma probabilmente, si tratta di un esempio assente anche nella musica classica.

Oltre alla metareferenzialità del medium-musica, però, la "Canzone Mononota" presenta quella che si potrebbe definire un'autoreferenzialità contestuale. Mi spiego: a Sanremo, da sempre, si dice che vi sia "sempre la stessa musica". È evidente che una canzone con una sola nota si presti bene a trasformarsi in allegoria dell'evento nel quale viene inserito, ma lo fa in maniera molto intelligente, parlando di musica e di composizione.

Per dovere di cronaca, però, bisogna dire che a Sanremo vi fu un'altra canzone mononota, risalente a ventitre anni fa. Sto parlando di "A" di Francesco Salvi, presentata a Sanremo nel 1990 e la cui strova recitava "Canto la canzone più bella del mondo, che c'ha una nota sola che fa: A" e che, verso la fine, giustificava la scrittura del brano con la seguente frase: "E va beh, ho fatto una canzone che c'è dentro una nota sola, e allora? Qui è quarant'anni che c'è sempre la stessa musica!"

Per la verità la canzone di Salvi non era costituita da una nota sola (la strofa ne aveva almeno cinque, il ritornello molte di più) e l'autoreferenzialità contestuale era esplicitata nel testo. In poche parole, il brano era infinitamente meno sagace (e musicalmente insignificante) rispetto a quello presentato dagli Elio e le Storie Tese ieri sera, ma è doveroso ricordarne l'esistenza.

Checché se ne dica, ieri Elio ha fatto faville. Il popolo del web lo dà già per vincitore, una cosa che - probabilmente - è di cattivo auspicio. Comunque vada, ancora una volta gli Elio e le Storie Tese hanno dimostrato di essere dei pilastri della musica italiana. Capaci di demolire, ricostruire, rimodellare. Come ogni bravo autore postmoderno.

La canzone mononota e il postmodernismo

Cose che mi fanno un po' schifo

Non sono polemico, né voglio litigare. Semplicemente mi è venuta voglia di condividere alcune cose che, a carattere del tutto personale, mi fanno un po' schifo. Non parlo di cose hippy, new age, sociali (nondimeno importanti) come "la guerra" o "la violenza contro le donne", quelle dovrebbero fare schifo a tutti. Non parlo nemmeno delle secrezioni umane o animali, fanno schifo ma sono naturali. Eccovi dunque la mia personale top 10 delle cose che mi fanno un po' schifo.

10. La moquette
9. La toilette chimica
8. Il cibo andato a male
7. La sabbia del gatto
6. La roulotte
5. I treni italiani
4. Le ultime gocce d'acqua in una bottiglia
3. Le gomme da masticare appiccicate
2. La muffa nella doccia
1. Egli

Cose che mi fanno un po' schifo

Obama e i videogiochi violenti

Improvvisamente Barack Obama mi sta meno simpatico.

In tutta sincerità, non mi sono mai interessato alla politica americana. E, in quanto europeo che vede l'America da lontano, anch'io mi sono fatto cogliere dall'entusiasmo dopo la sua elezione per il motivo più futile: Obama ha la pelle scura. Ammettiamolo: in Europa soltanto una piccola elite di persone ha esultato (o si è lamentata) dell'elezione di Obama a causa del suo programma riformatore. La stragrande maggioranza di noi ha visto in Obama il cambiamento a causa del colore della sua pelle. Si tratta di una sorta di "razzismo all'incontrario", che vede i lati positivi dell'avere un uomo nero alla Casa Bianca, anziché comprendere le ragioni del cambiamento dietro al suo programma politico. Non so se Obama ne sia al corrente - credo di sì - ma se io fossi in lui mi sentirei offeso per la superficialità con cui è stato trattato il fenomeno-Obama da queste parti. Una superficialità a cui anch'io, mio malgrado, ho contribuito.

In effetti, le sue riforme post-elezione sono state piuttosto interessanti. Magari impopolari, ma comunque degne di nota. Il sistema sanitario statunitense è stato profondamente riformato, e sono convinto che l'America sia oggi un paese più civile di prima.

Tuttavia, ritengo che agli Stati Uniti manchino ancora tre cose per diventare una nazione occidentale: l'adozione del sistema metrico decimale, l'abolizione della pena di morte e una modifica sostanziale del Secondo Emendamento della Costituzione.

Riguardo ai primi due, si tratta più che altro di una questione di buon senso. Il sistema metrico decimale è adottato da tutte le nazioni del mondo, ad esclusione degli Stati Uniti e di due paesi del Terzo Mondo (Birmania e Liberia). Non credo sia necessario spendere molte parole su questo fatto: checché se ne dica, il sistema metrico è semplicemente il più logico, e l'uso del metro è assai più semplice e pratico dell'uso di pollici, piedi, iarde e miglia.

Sulla pena di morte, credo che il dibattito sia più complesso, visto che anche in Europa vi sono dei sostenitori di questa forma inumana di punizione. Tuttavia, mi sembra evidente che nessuno - nemmeno lo stato - può arrogarsi il diritto di togliere la vita a una persona, dato che il diritto alla vita è il primo diritto di ogni essere umano.

Ed ora veniamo al Secondo Emendamento. Per chi non lo sapesse, l'articolo due della costituzione americana concede il diritto ad ogni persona di portare con sé un'arma. Si tratta di una cosa scritta alla fine del diciottesimo secolo, quando per caricare una pistola ci volevano cinque minuti e l'arma più efficace era una spada. Nel Ventunesimo secolo, questo emendamento è oggetto di polemiche a causa del fatto che, grazie o a causa di esso, negli Stati Uniti gira una grande quantità di armi. Armi che, spesso, finiscono per sparare a qualcuno.

Grazie a questo diritto sancito dalla costituzione si sono armati alcuni serial killer, assassini, rapinatori e, purtroppo, anche le persone che hanno compiuto le varie stragi degli ultimi vent'anni, a partire da quel massacro della Columbine High School raccontato da Michael Moore nel suo celebre documentario "Bowling a Columbine".

Tuttavia, nonostante anche un cretino possa comprendere che alla fonte del problema vi è la libera circolazione delle armi, da anni gli Stati Uniti cercano di deviare l'attenzione dal problema incolpando i media o, peggio, invertendo la causa con l'effetto ("se anche suo figlio fosse stato armato non l'avrebbero ucciso").

A questo punto qualcuno dirà: perché proibire le armi, dato che i malintenzionati se le procurano comunque? A questo punto, dicono loro, meglio dare ai cittadini "per bene" il diritto di difendersi. Il punto è che le stragi, proprio quelle vicende di cronaca che oggi hanno posto sotto accusa il Secondo Emendamento, sono state compiute nella quasi totalità dei casi da persone "per bene".

Inoltre, poiché qualunque persona "per bene" può ammalarsi e diventare depresso, schizofrenico, paranoide, è evidente che la soluzione più logica sarebbe quella di limitare la circolazione di armi.

Barack Obama, in questo scenario, ha deciso di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Ci saranno più controlli - questo è vero - ma al contempo si è attivata una ricerca governativa per comprendere se i videogiochi siano (con)causa di tanta violenza.

Considerando la potenza della lobby americana delle armi (la NRA), francamente non mi sorprenderei se questa ricerca prendesse una brutta piega, e finisse per scaricare la colpa su di un capro espiatorio così tanto criticato quale quello dei videogiochi violenti. Ma anche del cinema, della musica o dell'arte in generale.

Per questa ragione Obama mi sta meno simpatico di prima. Perché anche lui, a quanto pare, è obbligato a stare nel sistema. A cercare una giustificazione laddove non vi sono giustificazioni. A guardare il dito anziché la luna.

(Di seguito un'immagine che ho scattato in un cesso a Las Vegas: da noi scritte osé, da loro difesa del Secondo Emendamento, baby!)

Obama e i videogiochi violenti