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Dumbo (2019)

Dumbo (2019)

Una rilettura inaspettata del grande classico Disney.

Affidare Dumbo ad uno dei cineasti più esperti e appassionati sul tema dei freak qual è Tim Burton è apparsa sin da subito una mossa naturale, e forse anche un po' studiata, da parte di Disney. Nonostante tra il regista di Burbank e il colosso statunitense ci sia in atto una collaborazione quasi trentennale, in un difficile rapporto odio-amore che Burton non ha mai nascosto, era solo questione di tempo prima che la casa di Topolino - impegnata in una vasta operazione "revival" live action di alcuni dei suoi più grandi classici - gli commissionasse la direzione di questa trasposizione. In fin dei conti, le tematiche a lui più care c'erano tutte, bastava solo aspettare che l'autore imponesse il suo tocco e provasse a rileggere una delle favole disneyane più struggenti a modo suo. Già, a modo suo.

Se sin dai primi trailer la sensazione offerta da Dumbo fosse quella di atmosfere suggestive, quasi alla Big Fish - complice, forse, anche la presenza di Danny DeVito, qui nei panni del direttore del circo Max Medici, che omaggia senza dubbio quelli di Amos Calloway della pellicola del 2003 - quello che abbiamo è in realtà un film molto diverso, sotto certi versi un po' inaspettato. Dietro sceneggiatura di Ehren Kruger, che pone al centro la storia di una famiglia sconnessa di circensi e aspiranti scienziati anziché quella del piccolo pachiderma, Burton imbastisce un racconto che mescola (fin) troppe tematiche che, seppur siano in un certo senso omogenee, danno l'impressione di essere state messe lì per accontentare una committenza eccessivamente invadente o per cavalcare l'onda della favola dai buoni sentimenti a tutti i costi.

È vero, stiamo pur sempre parlando di una pellicola a marchio Disney, figlia di un'opera d'animazione che ha fatto proprio di quei "buoni sentimenti" e voglia di riscatto il suo cavallo di battaglia, ma ciò che traspare dal Dumbo burtoniano è solo grande confusione. Dal tema ambientalista, alla dicotomia sognoVSscienza, passando per l'analisi di un difficile rapporto padre/figli, è complesso riuscire a comprendere quale voglia essere il reale fine ultimo di questo film, la sua direzione precisa, dove lo stesso protagonista titolare sembra quasi scomparire, fagocitato da una mescolanza di tematiche che si cannibalizzano a vicenda. La sensazione è quasi che Dumbo sia un pretesto per raccontare una storia altra, che tuttavia non risulta analogamente interessante quanto quella del piccolo pachiderma capace di usare le sue enormi orecchie per spiccare il volo.

Dumbo (2019)

Ben inteso, non ci aspettavamo che Burton copiasse in modo pedissequo il film originale del 1941 - anzi, abbiamo persino apprezzato la scelta di non girare un film esattamente identico alla versione a cartoni animati, nonostante non siano mancati alcuni deliziosi omaggi (a partire dall'iconica scena dei Rosa Elefanti) - ma che quanto meno non venissero meno alcuni intenti originali che veicolava l'opera degli anni Quaranta. Anche a fronte di un immaginario suggestivo, che mescola atmosfere quasi felliniane ad un mondo squisitamente art-decò, ciò che manca a Dumbo è la sua anima più profonda, quella che racconta la storia di un "diverso", deriso e schernito da tutti (anche con grande violenza), proprio come i tanti freak che Burton ha saputo raccontare con grande sapienza nel suo passato cinematografico.

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Se visivamente Dumbo è capace di emozionare - complice anche l'ottima mimica facciale di alcuni dei suoi protagonisti, a partire da Michael Keaton nei panni dell'avido impresario Vandevere e dalla conturbante femme fatale Colette, interpretata da Eva Green - ciò che non convince è proprio la sua storia, che raffazzona troppi argomenti senza che questi vengano plasmati nella giusta forma e abbiano il giusto spazio.

Anche se siamo ben lontani dai livelli imbarazzanti di Alice nel Paese delle Meraviglie e, ancor più, di La Fabbrica di Cioccolato, Dumbo non è in grado di emozionare come dovrebbe e forse vorrebbe. Con questo non intendiamo dire che non manchino alcuni momenti molto toccanti, come la sequenza straziante di Dumbo e la sua mamma con in sottofondo "Bimbo Mio", ma ciò che resta tra le mani è un'opera che risulta riuscita a metà, incapace di brillare come avrebbe potuto, soprattutto quando a muovere le fila di tutto è uno dei registi visionari che, quanto meno nel cinema di genere, è riuscito a raccontare al meglio la "diversità". Il paradosso è che nonostante il Dumbo burtoniano sia pieno zeppo di freak - che intendiamo in senso lato, non solo come "fenomeni da baraccone" come i tanti che bazzicano il circo dei fratelli Medici - è incapace di raccontare le loro storie dando ad esse il giusto spessore. Un freak show, appunto, ma nel senso letterale del termine.

Se a mancare non sono certo la poesia con cui viene composta ogni immagine e qualche guizzo burtoniano che affonda le sue radici nel suo passato non senza un po' di auto-referenzialità (come ad esempio la sequenza dei titoli di testa), oltre all'eccellente punteggio musicale confezionato ad arte dal sempre immancabile Danny Elfman, a mancare è un po' la sostanza e il significato dell'opera originale, che è forse ciò che avrebbe reso questo film esteticamente interessante un ritorno convincente per Burton ai racconti che meglio gli si addicono: quelli dei diversi, degli emarginati, dei sognatori che tanto ci hanno fatto innamorare del suo cinema fino a tre lustri fa.

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06 Gamereactor Italia
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