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Valiant Hearts: The Great War

Valiant Hearts: Davanti al dolore degli altri

Ubisoft Montpellier ci restituisce un'opera capace di veicolare un messaggio forte, attraverso un linguaggio all'apparenza semplice.

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Esiste un piccolo libro, edito da Oscar Mondadori, che ha accompagnato il mio penultimo anno all'Università. Un libro di appena 120 pagine, ma che è anche una delle ultime opere della nota scrittrice newyorkese Susan Sontag (scomparsa nel 2004), dal titolo Davanti al dolore degli altri (Regarding Pain of Others - 2003), e che ho deciso di omaggiare in apertura di questo articolo. A differenza del titolo ingannevole - che potrebbe facilmente indurre il lettore a ritenerla un'opera volta ad analizzare il nostro atteggiamento di spettatori nei confronti di immagini dolorose e/o raccapriccianti (siano esse fotografiche, televisive, cinematografiche, e..) - il saggio della Sontag tende, tuttavia, ad indagare il concetto di manipolabilità dell'immagine, a partire da un'attenta analisi che va dalla Guerra Civile Spagnola fino all'11 Settembre. Vi è una domanda di fondo, una e semplice, che pervade l'intero libro: quanto l'immagine in senso lato riesce ad alterare la nostra percezione dell'orrore, della violenza? Quanto un'immagine riesce a condizionare le nostre idee? Detto in altre parole, il libro della Sontag non ha l'intento di raccontarci il dolore che proviamo in quanto spettatori di una data immagine drammatica, ma come la costruzione artificiale di tante immagini con cui i media ci bombardano sia in grado di alterare le nostre idee, la nostra percezione del dolore.

Da come avrete intuito, l'analisi del testo di Susan Sontag è molto complessa, ma non starò qui a tediarvi ulteriormente. Eppure, visto il tema centrale dell'intera trattazione (la guerra e l'uso del linguaggio visivo nel raccontarla), l'opera non poteva che rappresentare un ottimo punto di partenza per l'analisi di un titolo da poco arrivato sulle nostre console, e che inconsciamente (dannato incoscio!) mi ha riportato a riflettere su questo testo. Il titolo in questione è Valiant Hearts: The Great War, nuovo interessante esperimento narrativo di Ubisoft Montpellier (di cui potete anche leggere la recensione di un mio collega proprio qui), in cui attraverso un linguaggio all'apparenza semplice, come quello in stile fumetto adoperato nel gioco, lo studio francese è riuscito tuttavia a restituire con grande impatto emotivo la brutalità di un periodo storico, che molto spesso passa inosservato sui banchi di scuola: quello della Prima Guerra Mondiale, appunto.

Valiant Hearts: The Great War

Il gioco segue i destini di quattro personaggi (il contadino francese Emile, la veterinaria belga Anna, il volontario americano Freddie e il tedesco Karl, genero di Emile) alle prese con una delle pagine più turpi e atroci della Storia contemporanea, alternati da una voce narrante che introduce il giocatore ai fatti reali della Grande Guerra e da un repertorio di immagini reali, che testimoniano ulteriormente che quanto raccontato nel gioco sia, perdonate la ridondanza, reale. Vero. Esistito. Tangibile. Tralasciando il trasporto emotivo insito in Valiant Hearts: The Great War, ottenuto soprattutto grazie ad una ricca caratterizzazione dei personaggi (a partire dal fedele cane Walt, di cui è quasi impossibile non innamorarsi), e un gameplay semplice (tipico puzzle), volto a non "distrarci" eccessivamente dalla drammatica Storia di fondo, l'aspetto che mi ha particolarmente colpito del nuovo titolo di Ubisoft è proprio la scelta di questo particolare linguaggio visivo. Perché puntare sull' irrealismo del fumetto - un incantevole irrealismo in questo caso, grazie all'eccezionale motore UbiArt - e non prediligere un linguaggio più verosimile, come quello visto in tanti altri titoli di guerra, che arricchiscono le nostre librerie videoludiche?

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Ho usato questa settimana a mia disposizione, oltre che per giocare a Valiant Hearts, anche per sondare l'impressione generale (pubblico e critica) a partire da questa scelta stilistica, certamente insolita rispetto al panorama canonico del genere. Senza sorpresa, i pareri emersi sono molto contrastanti: c'è chi ha amato questo stile grafico innovativo e chi, invece, lo ha ritenuto riduttivo per il tipo di tematica che il gioco vuole affrontare. Anzi, c'è chi addirittura lo ha ritenuto "caricaturale". In questo Valiant Hearts: The Great War mi ha ricordato la stessa "leggerezza" con cui molto spesso si liquida il cinema d'animazione, associato comunemente ad un genere, ad una corrente cinematografica o ad una casa di produzione (in primis, Disney).

Pur non volendo entrare nel merito di un altro medium, il cinema - in continuo odi et amo con il mezzo videoludico - il caso Valiant Hearts mi ha ricordato quanto in realtà l'uso di un determinato linguaggio artistico (quello irreale dell'animazione Vs quello reale del live action) non incida negativamente sul contenuto profondo che l'opera vuole raccontare. A tal proposito, il cinema d'animazione mi viene in soccorso grazie a due esempi facili, e al tempo stesso eccellenti: Valzer con Bashir (regia di Ali Folman, Golden Globe 2009 per il Miglior Film Straniero...attenzione, Film Straniero, non Animazione, perché reputato documentario!) e Persepolis (regia di Marjane Satrapi, candidato agli Oscar nella Categoria Miglior Film d'Animazione 2007 e Vincitore del Premio della Giuria al Festival del Cinema di Cannes dello stesso anno). Due film che, seppur utilizzino un linguaggio "semplice" come quello della graphic novel o del disegno, sono riusciti a restituire - anche se con atmosfere molto diverse tra loro - la brutalità, l'orrore e la drammaticità dei fatti storici di cui si fanno narratori, rispettivamente i conflitti in Libano/Massacro di Sabra e Shatila del 1982 (Valzer con Bashir) e la Rivoluzione iraniana del 1979 (Persepolis). Detto in altre parole, la "semplicità" dell'immagine non impatta sui contenuti che veicola, anzi, sembra piuttosto esaltarli, offrire loro una luce nuova.

Valiant Hearts: The Great War

Analogamente, lo stile artistico di Valiant Hearts: The Great War non tende in alcun modo a "semplificare" ciò di cui siamo spettatori/attori, ma anzi restituisce un'esperienza di gioco brutale e disarmante, a cui spesso assistiamo inermi. La sua forza risiede nel riuscire a raccontare una storia, anzi la Storia, senza aver bisogno di puntare sulla veridicità, anzi sulla verosomiglianza, dell'immagine. Se è vero che l'opera di Ubisoft, per "giustificare" la sua attendibilità, si affidi anche a quell'archivio di immagini che possiamo sfogliare schiacciando il tasto "Options" sul nostro controller PS4, è anche vero che non ci sentiamo turbati dal fatto che la stessa Storia possa essere raccontata attraverso un linguaggio che, a detta di alcuni, è persino riduttivo. Al contrario, l'operazione narrativa e storica messa a segno da Ubisoft - per quanto romanzata - ci restituisce un prodotto di grande bellezza e poesia, che non ha alcuna intenzione di esemplificare o eludere ciò che racconta (forse mancheranno gli eccessivi schizzi di sangue che tanto piacciono a qualche redattore/giocatore guerrafondaio, ma ne sentiamo davvero la necessità?), quanto piuttosto raccontarcelo in modo alternativo.

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Nato quasi come "passatempo per la pausa pranzo" negli studi di Ubisoft Montpellier, Valiant Hearts: The Great War è molto più di un giochino narrativo, intervallato dalla risoluzione di puzzle più o meno facili e dalle storie personali dei singoli protagonisti. E' un prodotto capace di raccontarci il dolore degli altri e la Grande Guerra, senza necessariamente puntare alla verosimiglianza di ciò che vediamo sullo schermo. L'operazione artistica - perché per me il videogioco è arte - messa a punto da Ubisoft è un'ulteriore conferma della grandezza insita in questo medium, e delle sue grandi potenzialità ancora nascoste. Attendo con impazienza quale possa essere il prossimo passo, dopo tanta eccezionalità.

Valiant Hearts: The Great War
Valiant Hearts: The Great War

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